A distanza di una decina di giorni, poiché è sparito dalla pagina del menù da tempo e potrebbe interessare a chi se l’è fatto sfuggire, rendo nuovamente visibile (e commentabile) questo post interlocutorio sull’animazione italiana: suoi splendori e miserie.
In queste ultime settimane se n’è parlato molto, anche in seguito alla diffusione, nel web, di notizie non certo esaltanti sullo stato di salute del medium stesso nel nostro Paese e ai contenziosi, anche molto complessi, esistenti fra animatori e studi per i quali prestano il loro lavoro, sia in modo diretto, sia attraverso altre strutture che a loro volta fanno da tramite. Non è una novità, almeno sin dai tempi gloriosi di Carosello, e prima ancora dei quelli delle pubblicità animate cinematografiche, i lavori più articolati e complessi veniva “subappaltati” per intere scene o per particolari funzioni, come la coloritura dei rodovetri, che richiedeva particolare precisione, ma non competenze di animazione e disegno particolarmente sofisticate.
Dallo scambio di battute fra amici, professionisti creativi e amministratori degli studi sono emerse alcune riflessioni, che può servire riportare qui (o anche altrove, why not?), per allargare l’ambito del discorso.
Le riporto di seguito, puntualizzando che quanto trovate nella chiacchierato di questo post è un semplice avvio di discussione, con tutte le lacune e le approssimazioni che alcune note in un blog possono popratre con sé. Se trovate errori o valutazioni sbagliate, vi prego di farmelo notare.
Commuovetevi, ma correggetemi.
Ordunque, il panorama dell’animazione italiana, visto dall’esterno, dai freelance, ha un’unica prospettiva. Visto da chi è stato sia freelance, che (poi) impiegato e imprenditore, può offrire utili paragoni e spunti di riflessione, con cui raffrontare delle esperienze molto diverse fra loro, vissute in prima persona, sulla propria pelle.
Veniamo al dunque, senza girare troppo intorno al nocciolo: il mercato si è ristretto drasticamente e come conseguenza ci sono tanti piccoli studi di animazione che chiudono. Lo fanno anche i grandi, o quelli presunti tali. Tutti questi studi, se gettano la spugna,, lo fanno perché evidentemente hanno dei preoccupanti debiti, perché non ce la fanno a pagare i costi, le bollette, l’affitto, i collaboratori.
Di questi temoi stiamo discutendo anche in questi stessi giorni a proposito di etichette editoriali, agenzie di distribuzione, testate che scompaiono, progetti che si dissolvono…
Una chiusura non è un metodo furbo da adottare sistematicamente per sfruttare il lavoro degli altri. È un evento tragico e indesiderato, causato a sua volta da altri eventi dolorosi, da altre società che non pagano, da altre chiusure, ande da leggeresse commesse o da errori di previsione, senza dubbio.
Tuttavia, è sempre un guaio che si cerca in ogni modo di evitare; un’azienda che ha sempre lavorato dignitosamente per anni, che ha costruito con fatica la propria reputazione, non ha senso che improvvisamente si diverta a schiavizzare e masochisticamente a rovinare il proprio nome. Queste realtà cercano disperatamente di resistere, proprio per non buttare all’aria anni, a volte decenni di onesta storia lavorativa.
Ma se alla fine soccombono, si ripete lo schema, sempre uguale per tutti, che si verifica una sola volta, alla fine della loro storia, lasciando molte morti sul campo, e nessun vincitore.
In verità, esistono anche aziende che speculano sull’animazione e hanno dei comportamenti poco etici, ma paradossalmente, non sono quelle che falliscono, bensì quelle che rimangono aperte. Sono alcune delle grandi che prosperano e crescono, non hanno bisogno di imbastire complicate manovre societarie, di modificare la sede o il nome.
Fanno tutto alla luce del sole e sistematicamente, non una volta ogni dieci anni, ma ogni mese, ogni settimana.
Molte di queste struttuire non lavorano neanche in modo specifico nell’animazione, (ma nella fiction, nel licensing, etc) e si lanciano in questo settore perché ci intravedono dei facili guadagni con tollerabili margini di rischio.
Sono le più pericolose. Non è difficile riconoscerle, perché hanno mille serie televisive all’attivo, tutte di scarsa qualità, tutte brutte copie dell’originale, del concorrente.
Hanno sedi enormi e lussuose, dove però al loro interno lavora un piccolo manipolo di ragazzi malpagati, capitanati da un anziano signore che ha superato da tempo l’età pensionabile, che raffazzona alla bell’e meglio un progettino, e poi affida lo sviluppo completo in Asia.
Sono queste le società che danneggiano tutto un compartimento, perché delegano in modo strategico tutto il lavoro all’estero, e quando tengono qualcosina qui in Italia, lo disperdono tra mille studi, creando una serie di infiniti subappalti che porta come conseguenza un prodotto spesso orribile e di qualità disomogenea.
Come se non bastasse, per realizzare questi scempi, attingono a quei famosi finanziamenti pubblici che invece sono destinati alle aziende serie italiane.
Mister Coo musicvideo: Ça Ça Mirlaquerr from nacho rodriguez on Vimeo.
E anche su questo punto c’è da fare chiarezza: diversamente da quanto, protezionisticamente, avviene in alcuni Paesi esteri, in Italia non esiste nessuna sussistenza e nessun obbligo da parte della RAI a dare lavoro agli studi nazionali.
Da parte loro, gli studi Italiani non cercano uno sterile assistenzialismo che non favorirebbe nessun tipo di crescita.
Esiste invece un Decreto Legislativo che obbliga la RAI a destinare una quota non inferiore allo 0,75% dei ricavi complessivi annui derivanti dagli abbonamenti relativi all’offerta radiotelevisiva (nonché i ricavi pubblicitari connessi alla stessa), alla produzione, al finanziamento, al pre-acquisto o all’acquisto di opere di animazione di espressione originale italiana appositamente prodotte per la formazione dell’infanzia.
Stesso obbligo c’è anche per le altre emittenti (anche se con una quota leggermente inferiore), come Mediaset o Sky.
Questo aiuta sì a sviluppare l’azienda, a cercare co produttori esteri, a incrementare quella internazionalità che è essenziale nella produzione di serie televisive d’animazione.
E sono proprio le “altre” società italiane, quelle affidabili , che vigilano e lottano affinché queste regole vengano applicate.
Prova ne è che 13 anni fa queste aziende hanno fondato CARTOON ITALIA, associazione di categoria che senza alcun fine di lucro, e senza nessun carattere politico, si impegna ad esempio:
– a fare in modo che resti in Italia la percentuale più alta possibile di lavoro, e che il contributo RAI non venga dato alle aziende estere;
– a sviluppare una comunicazione tra le emittenti e le aziende, in modo che si sappia che tipo di cartoni animati vogliono, e quanto ne vogliono.
– Inoltre, si sforza di risolvere le problematiche legate alle date di messa in onda, alla programmazione e alla promozione dei programmi a cartoni…
E tantissimo altro…
C’è ancora un lavoro immenso e durissimo da fare, ma gli unici frutti che sono stati raccolti in questi anni sono stati prodotti proprio da queste società italiane, che molto spesso vengono invece viste come entità sopraffattrici dei diritti altrui, e che si sono iscritte a CARTOON ITALIA.
Basta andare su http://www.cartoonitalia.it/associati.html per rendersi conto di quali sono queste società.
Proprio durante questo gravissimo periodo di crisi, è facile che si verifichino fusioni e acquisizioni, magari di più società che chiudono, ma che riescono a trovare partners finanziari che consentono di ripartire.
Sono manovre societarie complicatissime, soprattutto qui in Italia, dove non è semplice superare quella concorrenzialità e quella diffidenza, che ci spinge a guardare sempre e solo al nostro piccolo orticello.
Sono inutili prerogative tutte italiane, e che invece all’estero sono state messe da parte e stanno dando ottimi frutti da anni: unire le forze creative a quelle finanziarie è sicuramente la chiave per superare questi difficili anni che ancora abbiamo davanti.
Queste operazioni durano mesi, e sono compiute da professionisti, nel pieno rispetto delle norme legislative.
Proseguimo con altre valutazioni, un po’ collaterali al discorso, ma strettamente connesse ad esso. Essere una grande Società non è sinonimo di sfruttatore. Anzi, proprio queste hanno la possibilità di assumere e far lavorare a tempo indeterminato centinaia di giovani che finalmente possono coronare il loro sogno e fare della loro passione il loro mestiere.
Certo, non saranno la Pixar, magari non sempre le loro creazioni brillano per originalità e qualità, ma siamo in Italia, e siamo ancora a livelli di pionierismo.
La strada è in salita, ma se non la percorriamo, fra altri dieci anni saremo sempre al solito punto, se non più indietro.
I commenti e le valutazioni su questo leitmotiv continuano.
Nel corpo del post compaiono immagini di personaggi classici, come Draghetto Grisù o Gigino Pestifero e l’Omino coi baffi, un cartoon di Rat-Man e un corto che non c’entra nulla con l’animazione italiana, ma che ci tengo a mostrarvi: è del barcellonese Nacho Rodríquez, che ha diretto e animato in Flash questo divertente music video.
In apertura il brano In Your Arms, interpretato da Kina Grannis e basato su una tecnica di animazione che dovete provare a immaginare quale sia.
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