Una volta tanto, un post a suo modo autobiografico. Uno dei fumetti che a otto anni, circa, ho avuto la fortuna di incontrare, grazie ai Comics distribuiti alle truppe alleate che ho ereditato, è stato Buz Sawyer di Roy Crane.
Fu una infatuazione fortissima e fulminea, destinata a esaurirsi nel giro di un anno, se non meno, anche in seguito alla penuria assoluta di disponibilità sul mercato italiano di albi a fumetti con quella serie deliziosa, di cui apprezzavo la chiarezza delle espressioni tratteggiare da Crane, le inquadrature che aveva scelto, il grande lavoro (in poche parole) che si intuiva dietro ogni singola tavola.
Parte del fascino di quelle tavole strane, molto diverse dai fumetti italici che si trovavano in edicola senza difficoltà, risiedeva anche nell’assenza di dettagli superflui e nelle ombreggiature a tratteggio quasi inesistenti. Quasi apparentabile a un ipotetico precursore dei Fratelli Hernandez, Crane incarnava con il suo stile uno dei miei “opposti preferiti”, perfetto contraltare “antibarocco” a Walt Kelly o a Robert Crumb, le cui opere, anche, ammiro da sempre.
Gli uni di qua, gli altri di là; vicini nell’approccio con il cartoncino bristol e nell’impegno a sperimentare soluzioni grafiche nuove, quanto distanti nella resa finale e persino nelle scelte degli strumenti grafici da usare.
Che la forza espressiva di Crane risiedesse nella sua limpidezza stilistica era per me tanto palese sin da quando le ho viste per la prima volta (e studiate, come può fare un ottenne), quanto lo era la fatica che necessariamente si doveva fare per raggiungerla.
Lo capivo facendone le spese, poiché la sperimentavo di persona, una certa mezzaspecie di sofferenza creativa, cercando di rubacchiare qualcosa allo stile netto di Buz Sawyer. Lo riproducevo come potevo, con penna a sfera Bic e tempere, sui fogli da disegno di quarta elementare, nei primi albi a fumetti che confezionavo allora (e che fortunatamente non ho venduto a parenti o affini).
Seguono l’autobiografia di Crane, un’autocaricatura e qualche esempio di lavoro con la carta craftint e/o double tone, con quelle caratteristiche “righette ombreggiate incrociate” che si ottenevano con delle sostanze chimiche da spalmare con il pennello sul foglio di cartoncino apposito.
In una telefonata di qualche tempo fa, Carlo Peroni (Perogatt) mi parlava della sua ammirazione per Crane e per una cena che fece con lui a un remoto Salone Internazionale dei Comics di Lucca (una delle “Lucche vere”, quelle organizzate da Immagine).
Crane pare che non fosse abbastanza apprezzato dal syndicate che ne distribuiva la produzione, il che è un po’ una beffa. E lo diceva in giro, lamentandosene.