PREMESSA DEL 10 APRILE
Nel secondo dei commenti, sotto il post, Gianni Brunoro fa notare come Damiano Damiani usi l’epressione “letteratura disegnata”, per indicare il Fumetto, molto prima di Hugo Pratt, al quale è abitualmente attribuita la sua creazione.
Non è una scoperta di poco conto.
La sede nella quale l’intervista a Damiani è raccolta è Sgt. Kirk, leggendaria rivista pubblicata a Genova da Florenzo Ivaldi, dedicata appunto al Maestro di Malamocco (Pratt).
Rinaldo Traini, che in queste settimane compare nella rubrica Nuvolette, curata da Luca Raffaelli per il settimanale dell’Aurea Editoriale Lanciostory, e che racconta a puntate la sua biografia fumettisca su Fumetto, dell’Anafi, ci ha inviato questa sua interessante intervista d’annata.
A rintracciarla è stato il nostro amico critico e saggista Gianni Brunoro. Riguarda il regista Damiano Damiani, recentemente scomparso, e risale al 1969, anno in cui fu pubblicata dalla rivista di Florenzo Ivaldi Sgt. Kirk.
Ringraziando, la pubblichiamo subito, ricordando il regista e la sua attività di regista (anche) di fotoromanzi, alcuni dei quali scritti da Guido Martina.
È appena terminata la trasmissione del dibattito sui fumetti negli studi di Telescuola.
Si formano vari gruppi che discutono con entusiasmo di «fumetti». Abbandonata l’aria dottorale che la trasmissione – ahimè – impone, il clima si fa più disteso e soprattutto più interessante. Solo a questo punto si comincia a parlare seriamente di fumetti. I più caldi discettano di testate e disegnatori con notazioni parecchio puntuali. Damiani è al mio fianco. Lo vedo sereno e contento. Decisamente è per i fumetti. L’atmosfera lo riporta di certo ai giorni della «scuola veneziana».
È ormai l’ora del congedo. A malincuore saluti e strette di mano. Ognuno torna alle proprie occupazioni, in molti casi importanti. Il tuffo nel mondo della nostalgia è finito.
Damiani, all’uscita degli studi, non è ancora soddisfatto. Ci telefoneremo.
Gli telefono. «Per cortesia, il Signor Damiani». La bimbetta che ha risposto resta interdetta, poi: «Papà c’è un certo Traini, gli dico che non ci sei?» Attimi di attesa poi Damiani viene all’apparecchio e mi fissa un appuntamento.
Damiani abita all’Aventino, un quartiere romano «classico». Professionisti, funzionari, borghesi anzi borghesissimi. La residenza à la page stile anni cinquanta. Si respira un’aria che sta giusto a mezzo tra i palazzi umbertini e gli smaglianti grattacieli dell’Eur.
La casa di Damiani è affondata nel verde, divisa dal resto del mondo da un magnifico cancello in ferro battuto regolarmente socchiuso.
La Signora Damiani mi apre. È cordiale come suo marito.
«La riconosco», mi dice, «l’ho vista ieri nella trasmissione». Assaporo per un attimo la notorietà. Damiani mi viene incontro, mi stringe la mano e mi fa entrare nel suo «studio».
In un angolo come un soriano occhieggia un piccolo televisore acceso. Damiani toglie l’audio e il «mostro» continua a sfarfallare il programma dei bambini.
«Ti è piaciuta la trasmissione di ieri sera?» mi chiede, alludendo al dibattito trasmesso in ampex. Rispondo con parole di circostanza. Questi dibattiti sui fumetti mi lasciano in verità sempre perplesso.
«Vedi, questi sono miei» mi dice alludendo a due quadri appesi alla parete: «ti piacciono?» Accenno confuso a un «si». La pittura non è il mio forte e poi i quadri sono un po’ fuori luce e dal punto dove mi trovo il riflesso del vetro ne opacizza l’immagine.
«Per anni mi sono dedicato al disegno e alla pittura. Ho frequentato “Brera”. Questa è stata la mia passione giovanile».
E a un certo punto ti sei incontrato con i fumetti, dico io per mettere la palla al centro.
«Beh, faccio parte di quella generazione che vide nascere l’Avventuroso e l’Audace. Per noi fu un autentico choc. Quel visualizzare fatti e avvenimenti condizionò il nostro gusto, forse anche il nostro modo di sentire. Non solo attraverso le pagine quadrettate ci arrivava l’America, con il suo costume e la rappresentazione di una società a noi estranea, ma anche un certo modulo mentale che finiva per influenzare tutta la nostra sfera culturale. Naturalmente, per noi ragazzi il messaggio giungeva quasi totalmente attraverso i fumetti, ma anche il cinema e la narrativa. diventata di moda negli anni quaranta, hanno accentuato questa tendenza dei giovani nati sotto il fascismo ma educati o meglio influenzati dai mezzi di comunicazione di massa nordamericani».
Quale, tra i personaggi dei comics operò di più sulla tua fantasia? Intendo naturalmente dal punto di vista figurativo.
«Hai ragione a fare questa distinzione. Non si può fare infatti una discriminazione tra fumetto e fumetto per quanto riguarda il contenuto inteso come rappresentazione di una società. I fumetti vanno giudicati nel loro insieme, mai nella loro singola espressione settoriale.
Riguardo invece al genere, alla qualità o allo stile il discorso è diverso. Indubbiamente all’inizio Topolino e Gordon furono i miei personaggi preferiti.
Topolino mi piaceva, oltre che per la meticolosa ambientazione, per il piccolo universo che si creava attorno al personaggio chiave, universo che era poi la trasposizione, naturalmente deformata e favolistica, dell’America del New Deal.
Certi squarci, certe angolazioni, direi quasi psicologiche, dei fermenti della società americana mi giunsero proprio attraverso questo personaggio. Per Gordon il discorso è diverso. Raymond certamente interpretò, con una visione spumeggiante, tutte le reminiscenze della letteratura avventurosa una specie di sogno caotico e megalomane. Di sicuro la fantascienza alimentava con la sua suggestione questa mia preferenza.
Ricordo comunque che Gordon rappresentò per me e per i miei coetanei un fatto importante. Quando negli anni futuri si parlerà dei miti della nostra generazione non si potrà scordare affatto il nome di questo eroe della letteratura disegnata».
Questa premessa, se ho ben capito, prepara il discorso per il personaggio che…
«Si, certamente! Fu Terry. La sceneggiatura, il ritmo, il taglio delle inquadrature, i contrasti del bianco nero di Caniff mi entusiasmarono.
Si può dire che conoscendo Caniff nacque in me il desiderio di diventare un cartoonist. Quel modo tagliente, incisivo eppure burlesco di rappresentare che sono le sue caratteristiche le accettai senza riserve. A quell’epoca non conoscevo ancora Gould, quello di Tracy, un altro autore che ammirai quando lo conobbi sulle pagine del Robinson».
Fu nell’immediato dopoguerra che cominciasti a collaborare con l’Asso di Picche?
«Leggevo tutte le pubblicazioni che presentavano comics americani in Italia. Decisi di mandare qualcosa all’Asso di Picche che si stampava a Venezia».
Perché proprio questa scelta?
«Questa pubblicazione era l’unica realizzata completamente da italiani, i quali si rifacevano ai maestri d’oltre oceano. Era chiaro oltre tutto, dallo stile e dal segno, che il maestro più seguito era Caniff. Conobbi poi, quando divenni collaboratore stabile, Faustinelli, Pratt e Battaglia. Erano semplicemente favolosi. Credo che abbiano formato la più formidabile équipe di cartoonist italiani».
Oggi sappiamo che Pratt attingeva non solo a Caniff, ma si rifaceva anche a The Spirit di Will Eisner. Qualcuno ha detto che il plagio era evidente.
«Macché plagio! Pratt era bravissimo.
Era logico che agli inizi, quando ancora non esisteva una scuola italiana (tutto quello che si era fatto nell’anteguerra era più vicino all’illustrazione che ai comics), i nostri disegnatori si rifacessero ai modelli americani. Ciò non toglie che il linguaggio era già originale e aveva in sé i germi di una produzione rispondente alle necessità del lettore italiano.
D’altronde, se non sbaglio, tutti i disegnatori dell’Asso di Picche hanno avuto successo».
Non però in Italia, almeno a quell’epoca. Il gruppo veneziano ebbe il torto di nascere proprio quando i comics in Italia si avviavano verso la crisi. Il fotoromanzo era ormai alle porte.
«Comunque, fu un atto positivo. Non è detto che le cose buone possano piacere al pubblico».
È un discorso pericoloso per un prodotto di massa… Se non erro, ti eri specializzato in storie gialle e dell’orrore.
«Pensavo che mi fossero più congeniali. Non dimenticare che io facevo il cartoonist per passione. Naturalmente mi divertivo un mondo a fare fumetti. C’era, da parte mia e degli altri, lo sforzo continuo per migliorare la produzione. Questo portava, e lo si notava a ogni nuovo numero, a una costante evoluzione, nel tratto e nella rappresentazione».
Come mai questa storia di Hogart il Giustiziere, intitolata Il mistero dell’arciere, è ancora in tue mani nella stesura originale?
«Mi ero ispirato, per questa storia, al «Club dei suicidi» di Stevenson. Come puoi vedere non avevo lesinato nelle scene un po’ forti. La redazione dell’Asso bocciò la storia. Mi fu detto che era troppo violenta per essere sottoposta ai ragazzi… Cosi è rimasta per anni chiusa nel cassetto».
Confrontandola a quanto si vede oggi in edicola, viene da sorridere. Così tu hai fatto il fumetto nero ante litteram?
«Questa è stata una delle ultime cose che ho fatto nei fumetti. Poi è venuto il cinema».
In che misura i fumetti hanno influenzato il tuo lavoro di regista?
«Difficile e complicato rispondere. Indubbiamente i comics, con il loro linguaggio, mi hanno condizionato in qualche misura. Io ho senz’altro travasato questa esperienza nel mio nuovo lavoro. La sceneggiatura dei miei film nasce sempre disegnata. Le scene più importanti prima le disegno, le realizzo graficamente, le sottopongo agli attori e ai miei collaboratori, poi le giro».
Insomma tu il film prima lo fai a fumetti?
«In linea di massima è cosi. Questo vale naturalmente solo per la sceneggiatura».
Con Il giorno della civetta hai avuto un grosso successo. Ora cosa hai in programma?
«Sto girando un nuovo film; un giallo con risvolti psicologici: l’uomo, anzi una donna, di fronte alla morte. Il tema centrale sarà questo. Naturalmente con il sottofondo che il giallo impone: suspense e colpo di scena finale. Sarà uno dei miei film più impegnativi».
Per tornare al tema di partenza, tu segui ormai da anni i fumetti da lontano, hai saputo che i comics sono diventati un grosso fatto: articoli, convegni, saggi a tutti i livelli, riviste specializzate. «Kirk» è appunto una di queste. A ottobre. a Lucca, si terrà il «4° Salone Internazionale dei comics», penso che un uomo di cinema come te, che viene dai fumetti, e tu non ti vergogni certamente a dirlo, dovrebbe essere presente.
«Compatibilmente con i miei impegni, sarei felice di partecipare».
Bene allora, arrivederci a Lucca!
«Arrivederci a Lucca».
Da Sgt. Kirk n. 19, gennaio 1969