Il post del mese scorso sull’emergenza acqua torna di estrema attualità oggi, come si può vedere leggendo i giornali o facendo un giro in rete.
Oppure, semplicemente, restando al computer a lavorare: le notizie giungono da sole in casella.
Per esempio, ve le spedisce Libero News, che chiarisce come il primo equivoco sulla privatizzazione dell’acqua nasca dal nome del decreto sul quale il Governo ha posto recentemente la fiducia: “Decreto Ronchi come Andrea Ronchi, non come Edo Ronchi, l’ex ministro dell’Ambiente ed esponente di spicco dell’ambientalismo italiano. L’onorevole di AN Andrea Ronchi è infatti ministro per le Politiche comunitarie e alla difesa dell’ambiente probabilmente non ci pensa nemmeno.
Ma a quanto pare si è occupato di acqua, prevedendo nel suo pacchetto una privatizzazione spinta di questa risorsa che finora è stata gestita da società pubbliche o a capitale misto pubblico-privato: un business che si aggira intorno agli otto miliardi di euro.
L’Europa però non dice che l’acqua deve essere privatizzata.
Anzi: secondo la Risoluzione Europea dell’11 marzo 2004, “Strategia per il mercato interno, priorità 2003-2006”, paragrafo 5: “Essendo l’acqua un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle norme del mercato interno”.
E allora?
Siamo davanti all’ennesimo atto compiuto dal Governo Berlusconi in barba alle decisioni comunitarie nell’interesse di pochissimi “soliti noti” e in disprezzo di milioni di italiani?
C’è chi non ha su questo il minimo dubbio. Ma il Governo ha dei complici.
Ripropongo il post del 19 ottobre scorso, passibile di aggiornamenti.
Giuliano Ciampolini, che mi invia spesso una newsletter straripante di riflessioni sue e altrui, denuncia un fattaccio (come definirlo? “antisociale”?) che riguarda la Toscana, ma che sembra estensibile all’intera Penisola.
Nel Pd – dice Giuliano – finito il “votificio” sul Segretario, tante persone sperano che si discuta anche di idee.
Un’idea è che l’acqua è un “bene comune” di fondamentale importanza per la vita: di conseguenza è necessario evitare che la gestione dei servizi idrici (acquedotti, ecc.) sia privatizzata/mercificata.
Questo ha invece intenzione di fare il disegno di legge regionale sui Servizi pubblici locali, di cui sono artefici Agostino Fragai e il Pd toscano, che – per i servizi idrici – prevede un unico Ato per tutta la Toscana e un’unica Spa pubblico/privata da collocare in borsa (di conseguenza, con la collocazione in borsa dell’azienda che gestisce gli acquedotti, viene fatto il passo decisivo in direzione della mercificazione dell’acqua).
Un decreto palesemente incostituzionale che gli enti locali dovrebbero impugnare (e si spera che lo facciano, se non sono completamente obnubilati).
“Gli acquedotti e i rubinetti verranno consegnati alle Spa collocate in borsa e decideranno la politica dell’acqua in tutti i territori”, sostiene Emilio Molinari, del Comitato Italiano per un Contratto Mondiale sull’Acqua.
Pubblico il suo intervento con qualche piccolo accorgimento di editing, e con il corredo di qualche vignetta di argomento umido.
In chiusura, un brano acquatico kitsch di Loredana Bertè.
Segue il pezzo di Molinari.
E’ un brutto colpo il decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri sulle privatizzazioni dei servizi pubblici locali. Un passaggio che chiude un’epoca, preso ancora una volta senza informare i cittadini e coinvolgere i Comuni.
Sono liquidati quei pochissimi margini concessi alle amministrazioni locali dalla legge del Parlamento varata non più tardi dell’agosto 2008, di mantenere la gestione in house nei servizi fondamentali come l’acqua.
La legge 133 art. 23 bis, appunto, è stata superata e pure già rappresentava un duro colpo per la gestione pubblica. Introduceva l’obbligo alla gara e l’ingresso dei privati, ma con ancora alcune possibilità di scelta da parte dei comuni, i quali, dopo essere passati sotto i controlli delle diverse autority, potevano optare per una gestione del servizio in house, fuori cioè dal mercato finanziario.
Si chiude così il lungo e duro scontro politico ed istituzionale sulle privatizzazioni dei servizi pubblici locali; uno scontro che va avanti dal 2002 e ha contrapposto da una parte molti enti locali e alcuni partiti e d’altra i due poli politici di centro destra e di centro sinistra uniti.
E’ l’addio alle gestioni in house, e cade così l’ultimo bastione di resistenza eretto dai Comuni e dalle Province.
Ora è il via alla mercificazione totale dell’acqua potabile nel nostro Paese. Ma vediamo prima cosa sono le gestioni in house. In sostanza sono SPA interamente nelle mani dei Comuni consorziati, sulla quale i comuni stessi esercitano il “controllo analogo” a quello dei propri uffici. Questo assetto è riconosciuto dalla normativa Europea, tanto è che la Francia e il Comune di Parigi la stanno perseguendo in un ottica di vera ripubblicizzazione.
La Spagna e la Germania lo stanno applicando in alcune grandi città ed è tuttora adottato dal Belgio, dall’Olanda, dal Lussemburgo, nonché da 64 ATO italiani, 61 dei quali hanno passato il vaglio dell’autority, compresi quelli di Milano Città e Provincia.
Sono state una mediazione onorevole e temporanea per il movimento dell’acqua che con 400.000 firme e una legge di iniziativa popolare chiedeva la piena ripubblicizzazione del servizio idrico.
Una mediazione ottenuta principalmente dalla resistenza o riottosità (così è stata definita da partiti e confindustria) dei comuni a perdere autonomia e ruolo decisionale sui servizi e beni comuni come l’acqua potabile, che si è sostanziata in numerose iniziative, la più forte delle quali è stato il referendum promosso da 144 comuni lombardi trasversalmente rappresentati.
E’ stata una riottosità che più volte messa sotto accusa, che i partiti hanno chiesto di stroncare, ma che ha spesso trovato il sostegno oltre che nella cosiddetta “Sinistra radicale” anche nelle posizioni prese dalla Lega: nel 2003 con l’articolo 14 nella Finanziaria che introduceva le in house, nel 2006 con il referendum lombardo poi nel 2008 con l’emendamento alla legge 133, art. 23bis, con il quale appunto introduceva quelle salvaguardie del pubblico, oggi rimosse dal decreto, alle quale si sono aggrappati per tanto, numerosi comuni e (RIPETO) 64 ATO.
Ecco, il decreto legge dell’altra sera fa saltare queste salvaguardie entro il 2011 e fa un passo in più, chiede che anche nell’affidamento tramite gara a società miste la quota di partecipazione del pubblico non può superare il 40% e nelle quotate esistenti deve scendere al di sotto del 30% entro il 2012.
Con il decreto cade la foglia di fico, l’imbroglio, con la quale molti amministratori, in particolare toscani ed emiliani hanno cercato di rintuzzarci nel passato, e cioè che con il 51% il loro controllo sarebbe stato garantito. Adesso cosa faranno? Domanda retorica….
Siamo ad una svolta: dicevo che tutta la nostra acqua potabile sarà privatizzata e con questo come paese entriamo a piè pari nel disegno delle multinazionali di mercificare universalmente un bene comune fondamentale come l’acqua. Anzi ne siamo la punta avanzata.
Entro il 2011 sarà obbligatorio mettere a gara l’intero Servizio idrico nazionale e tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che le gare le vinceranno tutte un cartello di imprese ben definito: ACEA, IRIDE, ENIA, HERA, A2A, dentro alle quali i pacchetti azionari di Suez Lyonnes des Eaux e Veolia la faranno da padroni, assieme ai Caltagirone, ai Pisante e alle banche.
Poteri locali, partecipazione dei cittadini, democrazia, federalismo… parole… vuote: a queste SPA verranno consegnati i rubinetti d’Italia e decideranno la politica dell’acqua in tutti i territori.
Ma questa svolta, il decreto porta la firma Fitto-Calderoli, si realizza cioè con l’accordo della Lega e questa è la novità, che chiude il cerchio degli intrecci politico-affaristici.
Quali siano le contropartite, cosa si sia giocata ancora una volta la Lega non mi è dato sapere, penso però che la Lega con l’acqua, dopo Alitalia… etc. si è giocata la credibilità di essere il partito dei territori, dei loro beni comuni e della loro autonomia.
Ora la parola è ai movimenti sociali, ai giornalisti liberi, agli uomini di cultura, ai Sindacati, ai Sindaci, alla loro capacità di indignarsi ancora e di sapersi mobilitare in due battaglie assolutamente complementari: sui tempi brevi quella di fermare o modificare il decreto e l’altra articolata sui territori di chiedere a Comuni e Regioni di cambiare Statuti e Leggi regionali affinché affermino che l’acqua è un bene pubblico privo di interesse economico.