Pubblico lo scritto di un amico, costante lettore di questo blog, che risponde anche ai commenti scomposti pubblicati nei giorni scorsi sempre qui, nei post che hanno affiancato la vicenda politica e umana alla quale tutti i giornali, ieri, hanno dedicato le loro prime pagine.
La sola ragione per cui l’autore delle riflessioni che seguono preferisce restare anonimo è che, scrivendo, cita altre persone delle quali non vuole violare la privacy, nonché – soprattutto – i sentimenti.
Scrivere queste righe, precisa, non è stato semplice, ma ha sentito il dovere di farlo. Per un sacco di gente. Anche per quella che domani potrebbe trovarsi in situazioni analoghe. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma non si deve far finta di non sapere.
Questo blog è letto da un sacco di persone, non soltanto appassionati di fumetti, sia nell’immediatezza della pubblicazione dei post che in seguito. Sono certo che quanto segue sia utile al confronto, e per questo sono grato all’anonimo amico che ha voluto condividere con i visitatori del blog questa sua intima esperienza.
Assassino.
Più o meno velatamente, con questo appellativo è stato definito da ieri il padre di Eluana Englaro. E con lui i medici che hanno deciso di applicare una sentenza della magistratura che ha consentito la sospensione di alimentazione e idratazione di una donna trentacinquenne – se non sbaglio – da circa 17 anni in uno stato di coma vegetativo.
Assassino perché ha lottato per tutto questo tempo affinché sua figlia potesse avere esaudito una sua volontà: quella, nel caso drammatico che si è poi purtroppo verificato, di non essere mantenuta in vita artificialmente (ché quello francamente avviene, quando una persona non è in grado di nutrirsi da sola e volontariamente). Una scelta che può essere condivisa o meno ma che comunque andrebbe come minimo, e dico come minimo, rispettata. Da tutti, quale che sia il nostro sentire e pensare.
Ma mi domando: non è ingeneroso e crudele definire assassino un padre che vede la figlia prima subire un tragico incidente e poi lentamente ma inesorabilmente – nonostante tutte le cure e tutto l’amore di coloro che l’hanno assistita – deperire, appassire letteralmente? Vederla continuare a respirare solo perché una parte del cervello, quella che sottintende le funzioni neurovegetative, ha continuato a funzionare?
(Funzionare quanto, poi? Come la maggior parte di coloro che in tutto questo tempo ha parlato – e spesso straparlato – sull’argomento, io non conoscevo l’esatta situazione clinica di Eluana Englaro). E per questo chiedere il rispetto di una decisione presa ancora prima che la situazione si verificasse davvero?
Non credo proprio che sia giusto, un appellativo così infamante.
E poi, se una autorizzazione alla sospensione dell’alimentazione è arrivata, si pensa forse che sia giunta a cuor leggero? Il tribunale, prima di emetterla ha aver certamente consultato una serie di periti che ha dato un responso medico in proposito, valutando la situazione dati clinici alla mano.
Ma soprattutto, si può mai pensare che una famiglia possa fare a cuor leggero una simile richiesta? Si tratta di far compiere a quello che resta di una figlia il passo, per molti, più definitivo della nostra vita.
Personalmente provo solo una grande pietà per questa donna, la cui parabola terrena è finita troppo presto e in una maniera così tragica. E provo pietà per i suoi genitori, che in tutto questo tempo hanno vissuto con il simulacro della loro figlia, magari nella segreta speranza che un giorno… Perché una tale speranza, anche quando può sembrare assurdo, da qualche parte dentro la si cova tutti. O almeno la covano coloro che sono costretti dalla vita a una simile prova.
Si dice che un genitore non dovrebbe mai sopravvivere a un figlio. Il dolore deve essere troppo grande. Dal mio punto di vista non riesco nemmeno a immaginare come mi comporterei, se succedesse a me.
Peppino Englaro crediamo forse che non la pensi più o meno così? Che mai avrebbe voluto sopravvivere alla bellissima ragazza che tutti i mezzi di informazione ci hanno mostrato nel pieno della sua giovinezza? Credo si possa essere tutti d’accordo almeno su questo. Ma Peppino Englaro e sua moglie – che nessuno ricorda mai – hanno visto giorno dopo giorno le trasformazioni di questa loro giovane figlia. L’hanno vista diventare quello che per pudore, e con grande coraggio, hanno sempre evitato di rendere pubblico. Per loro, farlo sarebbe stato più facile. Perché molti di coloro che si infervorano sull’argomento credono di avere a che fare con una florida ventenne. Anni di quello stato portano a situazioni ben differenti, invece, e magari vederla ora avrebbe spinto a considerazioni differenti.
Provo pietà e una grandissima stima nei suoi confronti. Perché la sua non è stata a un certo punto nemmeno più la battaglia per sua figlia, ma per tutti coloro i quali possono trovarsi nella sua stessa condizione.
Perché abbiano la possibilità di decidere della propria esistenza, nel pieno rispetto di chi la pensa diversamente, ma godendo del medesimo rispetto. Mi rendo conto che nel nostro Paese sia più difficile che in altri, ma si assiste spesso e volentieri al teatrino del “Vuoi l’aborto? Allora tutti abortiranno!” Definizione assurda di per sé, ma sembra proprio questo il modo di pensare di tanti.
Avere, nel caso, una legge sull’aborto, non spinge nessuno ad abortire se le sue convinzioni religiose, etiche o morali glielo impediscono. Semplicemente consentono che avvenga. Stavo per dire nella maniera migliore, ma una maniera migliore non esiste. Sempre un trauma è, per chi vi si sottopone, però magari è meglio lontano da pericolosissima ‘mammane’. E gli altri non possono e non devono giudicare su scelte personali spesso dolorosissime.
Personalmente sono favorevole alla possibilità per le donne di abortire, ma quando mia moglie è rimasta incinta, assieme abbiamo deciso: niente amniocentesi. Comunque sia il figlio lo teniamo, perché così sentiamo di agire. Ma come posso permettermi di dire a un altro di fare altrettanto? Che ne so io di chi è e chi non è, e dei motivi per cui fa o non fa una determinata cosa? Io ho incrociato le dita, ho passato periodi di vera angoscia e poi fortunatamente tutto è andato bene.
Lo stesso ovviamente vale per casi come quello di Eluana Englaro.
Sembra che lasciare che seguisse il suo destino volesse dire avere agli ingressi degli ospedali una pletora di persone pronte a sbarazzarsi di ingombranti pesi. Non è esattamente così, e chi vuole legiferare in materia lo sa benissimo.
Ma ci sono alle porte nuove elezioni e nulla mi toglie dalla testa che per alcuni sia vitale l’appoggio della Chiesa.
La quale, per la cronaca, fa non bene, ma benissimo a pronunciarsi in merito, e ad esprimere il proprio dissenso e la propria condanna. Ci mancherebbe che non lo facesse. È non solo suo diritto, ma suo dovere farlo. Lo stesso diritto di tutti i credenti.
Il problema è che siamo, o dovremmo essere in uno stato LAICO. Uno Stato che ha dei doveri verso TUTTA la popolazione. Legiferando in maniera tale da garantire ai suoi cittadini diritti e doveri uguali per tutti.
L’ho già detto, avere la possibilità di fare o non fare una determinata cosa, non vuol dire obbligare tutti a farla. Sarebbe tanto semplice, dopo tutto! O forse no. Imporre un modo di pensare su un altro, però, non è esattamente sinonimo di democrazia, mi sembra.
Personalmente, almeno una parte delle emozioni di Peppino Englaro e della sua famiglia purtroppo credo di poterle capire. Perché una situazione simile l’ho vissuta solo pochi mesi fa. Quando mia madre, colpita da una metastasi a distanza di tanti anni dal tumore primario, improvvisamente si è aggravata. Le terapie non mostravano più nessuna efficacia e quando ho parlato con i medici ho saputo che sarebbe stata questione di tempo.
Poco tempo.
Ma non immaginavo così poco.
Due giorni dopo l’inizio di una nuova terapia, un inutile – col senno di poi è facile dirlo, lo ripeto a me stesso da allora – tentativo mosso più dalla speranza (quella che appunto si conserva sempre, anche nelle situazioni più disperate), mia madre è stata ricoverata d’urgenza entrando in coma due giorni dopo. Io non ero con lei. Viveva lontano da me. L’avevo lasciata dopo la terapia, poco prima che venisse ricoverata d’urgenza per il precipitare improvviso della situazione. E quando sono arrivato nella mia città natale lei già non c’era più. O meglio, non era più cosciente.
I medici non lasciavano speranze. Si trattava solo di una questione di tempo. L’unica cosa che potevano fare era idratarla con flebo. In compenso in ospedale sono obbligati a fare tutta una serie di esami anche quando si sa bene che sono palesemente inutili. Con i miei congiunti, ci siamo rifiutati di farli eseguire poi ci siamo poi guardati in faccia e la decisione è stata presa. Se era il momento per nostra madre di andare, che avvenisse a casa propria e non in un letto d’ospedale.
Quindi, la solita trafila. Firma per la dimissione (con il parere contrario dei medici, ma con la loro massima comprensione e il loro ufficioso appoggio), ambulanza e poi casa. E se durante il ricovero pur in uno stato di totale insensibilità e incoscienza, l’espressione di mia madre era, se non proprio sofferente, tesa, all’arrivo a casa è successo qualcosa. Non appena adagiata sul letto, sul suo letto, ha aperto gli occhi, per un solo, lunghissimo istante. Come a chiedersi dove fosse. Caso volle che fossi proprio io sopra di lei in quel momento per aiutare a sistemarla. Mi basto dirle di stare tranquilla, che era a casa. Li richiuse subito, e fu l’ultima volta che li vidi.
Non so nemmeno se in quel momento fosse cosciente, se capisse quello che stava succedendo. Da qualche parte dentro di me credo e spero di sì. Perché da quel momento, lì nel suo letto, il petto che si sollevava e si abbassava, come dormisse, la pelle calda, ha mantenuto sino alla fine un’aria tranquilla, quasi serena. Una serenità come non le avevo visto da anni. Solo un catetere raccontava che non stava dormendo ma aveva cominciato a percorrere il suo ultimo cammino.
Da quel momento sono però anche cominciati i miei dubbi, le mie paure, la mia angoscia. Avevamo fatto bene? Era stato meglio toglierla da quel letto d’ospedale, incannulata e sedata ma sotto controllo medico? A parole è facile dirlo. Forse è facile anche prendere decisioni improvvise. Nonostante fosse cattolica praticante, mia madre aveva il terrore di rimanere in una condizione come quella. Aveva sempre espresso la ferrea volontà di non essere lasciata in quelle condizioni. E anche se la subitaneità degli avvenimenti non aveva lasciato posto a dichiarazioni di un qualsiasi genere, io e i miei congiunti sapevamo.
Quante volte avrei voluto tornare indietro! Sapevamo che era questione di giorni. Che ogni momento poteva essere l’ultimo. E man mano che le ore passavano, aumentava anche la consapevolezza che si avvicinava il momento in cui non sarebbe più stata tra noi e pensavo che persino così, esanime in un letto, mi sarebbe bastato (meschina, umana consolazione contro l’inevitabile distacco). Si avvicinava invece il momento in cui non avremmo più udito il suo respiro, che non l’avremmo più potuta accarezzare. Che non avremmo potuto più nemmeno parlarle, in notturni monologhi a bassa voce nei quali racconti le cose che non hai raccontato in tanti anni, e ti detesti per non averlo fatto prima.
Ma se anche sarebbe stato più facile cercare di allungare quanto più possibile questo momento, continuavo anche a pensare che per lei non sarebbe stato giusto. Perché era un suo desiderio. Opinabile come tutte le cose di questo mondo, ma da rispettare. Anche se costa.
Quattro giorni dopo essere stata portata a casa, mia madre è morta, alle 2.15 del mattino di un giovedì d’autunno. Con un lungo, lungo sospiro. Se n’è andata serenamente e io sto ancora qui quattro mesi dopo a chiedermi se è stato giusto quello che ho fatto.
Quattro giorni. Che coincidenza. Gli stessi giorni trascorsi dalla sospensione dell’idratazione per il corpo di Eluana Englaro.
Per questo comprendo suo padre. E spero che tutti coloro che hanno in questi mesi usato, USATO, questa vicenda per fini tutt’altro che onorevoli, non vengano mai a trovarsi in una situazione simile. Perché fa male. Perché qualsiasi cosa si faccia, probabilmente resterà per sempre la sensazione di aver sbagliato. Certo, forse anche di aver lasciato morire un proprio caro.
Di vicende come questa ne avvengono tutti i giorni. La maggior parte non sale certo alla ribalta delle cronache e non suscita l’interesse morboso dei media. Spesso ne sono protagoniste persone che vivono in solitudine e silenzio il loro dramma. Proprio per questo credo che Peppino Englaro abbia avuto coraggio. Portando sulle proprie spalle – ed esponendosi da solo – il peso di un dramma assai più diffuso di quanto si voglia credere. E facendone una battaglia di civiltà, in uno stato che sembra stia perdendone brandelli a ogni piè sospinto.
Coraggio, signori Englaro.