Alvin Lee se n’è andato.
Ma no, non questo Alvin Lee, il disegnatore di fumetti, al quale forse è venuto spontaneo toccarsi.
Il suo omonimo. Quello che agli appassionati di rock di “più di dieci anni fa” dice molto, molto di più.
Ecco.
The Nottingham, England-born Lee founded the band Ten Years After in 1967. The group first toured the U.S. in 1967, but its popularity exploded following Lee’s rousing performance of the song “I’m Going Home” at Woodstock in 1969.
Lee’s epic and electrifying solos on his Gibson guitar for the 11-minute performance were immortalized in the documentary film about the legendary festival.
Di questo Alvin, con trasportissimo, parla Jiga Melik, nel pezzo sotto, del quale copio solo una parte, sennò non vale.
Il film del concerto di Woodstock fu un evento imperdibile, mi sembra che uscì l’inverno del ’70. Entrai al cinema Ariston di Firenze alle tre del pomeriggio di un lunedì, primo spettacolo, e primo giorno di programmazione. Avevo diciotto anni, i capelli arrivavano fino alle spalle nonostante i divieti di mio padre. Nelle orecchie, avevo i Cream e Hendrix, da ogni mattino a ogni mattino dopo. Venne il film di Woodstock, e fu una benedizione, lì non ero potuto andare.
Lo avevo vagheggiato, discusso, adorato ed ero rimasto a Firenze. Era talmente lontano, Woodstock, da essere una mitologia nella mitologia. Lo avevo intravisto in un telegiornale in bianco e nero e nelle foto a colori delle riviste musicali. Ripeto, erano le tre del meriggio, al cinema non c’era nessuno, solo il profumo delle poltrone di velluto. Mi misi a sedere. Non conoscevo i Ten Years After e questo loro Alvin Lee, se non forse dal Melody Maker, la rivista inglese di musica rock e pop che andavo religiosamente a comprare sotto i portici del centro.
Insomma, dal punto di vista dell’emozione musicale, andare a vedere Woodstock per me era andare a vedere per la prima volta nella vita Jimi Hendrix in azione, perché allora non c’era YouTube, e così entrai nel cinema vuoto pensando solo a questo, che ero andato per Jimi che suonava il suo inno americano e Purple Haze.
Lo so, volete leggerne di più.
Qui lo si può far.
E grazie a Jiga, adesso ricomincio a parlare in tondo.
Diciamocelo, però.
Le mie preferenze, woodstockianamente parlando, sono sempore andate a Joni Mitchell e a Malanie Safka: quelle che ti aprono l’animo per raccontarti qualcosa, non ai gruppi “scalmanati” che te lo gridano facendoti agitare. Più il cervello che la pancia è il destinatario, per quanto mi riguarda.
Ma de gustibus.
E, certo, i Jefferson Airplane, quando sotto i riflettori c’era lei, Grace Slick.
In Italia, contemporaneamente, o quasi, di musicale autoctono potevamo pretendere al massimo quanto segue.
E non era male: Lando Buzzanca faceva molto ridere il giovane Daniele Luttazzi (tra gli altri).
Infine, aprendo la tragica, nuova settimana, per ricordare la giornata di venerdì scorso a Firenze, presso la Scuola Internazionale di Comics, dove si è parlato di Milt Kahl, spariamoci il video di Killroy 48, che così descrive il suo rullo di immagini, la prima delle quali è di Bruno Napoli:
I saw for the first time “Song of the South / I Racconti dello Zio Tom” at 7 years old, and from that moment increased in me the passion for the Disney-characters. Copyright Walt Disney 1946.
Il mistero dell’embeddamento risiede nel fatto che invece di partire Song of the South (che è comunque visionabile su YouTube), curiosamente parte Calamity Jane, più o meno di Lina Buffolente.
Come stanno veramente le cose sarà rivelato nel corso dell’era.